Il coraggio di parlare.

Ci sono due cose che mi colpiscono in questa storia, due più di altre.
La prima è questa foto: è da ieri che la guardo, che ogni tanto torno a guardarla, e penso, in un momento in cui tutti ci siamo fermati a chiederci, senza riuscire a immaginarlo, cosa possa essere stato vivere segregata e strappata per dieci interminabili anni alla propria vita, alla smorfia di dolore e di incredulità che si legge sul volto della sorella.
Ritrovare una sorella dopo dieci anni, una sorella che forse si credeva di non rivedere mai più, una sorella della quale adesso si saprà cos’ha sofferto e cos’ha vissuto a pochi passi dalla sicurezza e dal calore della propria casa, si può riuscire a immaginare anche questo, cosa voglia dire ritrovare qualcuno che si credeva perduto per sempre?
Ecco, su quel volto c’è una gioia che è talmente vicina al dolore da farmi riempire gli occhi di lacrime, di gioia e di dolore ogni volta che la vedo, senza riuscire a fare a meno di guardarla.

Amanda Berry, al centro, tra la sorella e la figlia nata durante la prigionia.
Amanda Berry, al centro, tra la sorella e la figlia nata durante la prigionia.

E poi queste parole, le parole conclusive dell’articolo pubblicato su Il Corriere della Sera online, «Quante altre Amanda o Gina sono in mano a sadici che le trasformano in schiave?».
Ecco, queste parole mi mettono i brividi: se non ho, se non abbiamo la forza di pensare a come abbiano fatto queste tre ragazze, oggi giovani donne, a trascorrere così dieci anni della propria vita, pensieri che altre storie, stesse storie, già vissute in passato a Vienna da Natasha Kampusch riportano alla mente, immaginare che ci siano (e sicuramente ci saranno) altre donne che stanno vivendo una situazione analoga, ha un effetto devastante, e il senso di impotenza che mi prende si tramuta in rabbia, una rabbia che però non trova sfogo.
L’unica speranza, ma questo articolo purtroppo di speranza me ne lascia molto poca, è che chi sappia o sospetti qualcosa, si ricordi di essere parte di una società civile, e decida di fare quello che gli abitanti di Cleveland non hanno saputo fare: parlare.

Pubblicato da laPitta

La Pitta è una dritta con i capelli a spaghetto lunghi come un vialetto. Potrebbe raccontare a tutti che da più di dieci anni lavora per la pubblicità, potrebbe dire che ha visto l’uomo atterrare sulla luna e che ha passato più di cinquemila minuti a guardare ogni genere di film con grande passione. Già, potrebbe. Ma la Pitta è troppo modesta. Alla Pitta piace: arrivare sempre alla fine di un libro, leggere i titoli di coda fino a quando non si accendono le luci in sala, bere tè appena sveglia, segnarsi i titoli delle canzoni da sentire almeno una volta nella vita, ascoltare i discorsi che le persone fanno quando sono al ristorante e “Il favoloso mondo di Amélie”, ma questo l’avevate già capito.