Ai bordi di periferia.

Che Acilia sia borgata te ne accorgi quando vai al primo funerale.
Non nella defilata San Carlo da Sezze alla semi residenziale Madonnetta, non a San Timoteo, immersa fra le ville di Casalpalocco, nemmeno a San Giorgio ad Acilia Sud, che pur essendo all’apparenza paesello è ancora quartiere periferico di Roma, a modo suo.

Te ne accorgi a San Leonardo da Porto Maurizio, che sta proprio nel centro di Acilia, in una piazza che di piazza ha solo la forma e il nome, perché è una piazza di passaggio, messa proprio lì,  in quel tratto finale in cui la Via di Acilia è pronta a tuffarsi nella Via del Mare per scappare a Roma, come dicono quelli che qui ci abitano da decenni.
Vado a Roma, a indicare che vai in centro, dicono, ma guai se a dirlo è uno che non è di qui, uno che si capisce che è cresciuto altrove o che altrova ancora ci abita. E perché, gli risponde il più delle volte chi qui ci è nato e cresciuto, qui forse non è Roma?

E così, ieri, sul sagrato della chiesa, in mezzo ai clacson che suonavano, alle foto piene di visi sorridenti attaccate su un cartoncino Bristol appoggiato alla cancellata insieme a un secchio pieno di girasoli, in mezzo alle persone che aspettavano che la bara bianca uscisse, ai palloncini bianchi legati fra loro in attesa di essere liberati nell’aria, fra le vecchiette che si fermavano chiedendo “chi era”, e “una ragazza, lavorava nella pizzeria al semaforo”, oppure “una cara amica del mi’ nipote”, i bambini di una chissà quale scuola materna che si sono trovati a passare proprio in quel momento formando una catena, mano nella mano, che cercava di attraversare una gimcana fatta di persone in attesa, fra gli habitué del bar e gli anziani che ogni giorno trascorrono le ore nel giardinetto antistante la chiesa, fra le note di Laura Pausini che cantava “in qualunque posto sarai” che fuoriuscivano da una Smart appoggiata muso contro muso al carro funebre, fra i peluche e mazzi di fiori e un cuscino di rose rosse e bianche, gli occhi pieni di lacrime e di mascara di ragazze troppo truccate e quelle di ragazzi dallo sguardo sfrontato e allo stesso tempo smarrito che forse entravano in chiesa per la prima volta dal giorno della Prima Comunione, mi sono trovata a pensare che forse è vero, che qui non è Roma, perché qui c’è ancora una borgata che si ferma a guardare il funerale di una ragazza morta a ventiquattro anni in un incidente stradale e che in qualche modo, a modo suo, ci tiene a salutarla, anche se non la conosce, perché invece, in qualche altro strano modo, che altrove non ho mi è mai capitato di incontrare, la riconosce e la abbraccia e si stringe intorno a chi la piange e le ha voluto bene.

E io, ieri, seduta sulla panchina del giardinetto, ho pensato a tante cose, e oggi alle belle parole che avrebbe saputo trovare Sandro Onofri, che più di me aveva occhi per guardare le borgate, e penna, e inchiostro, per saperle descrivere e raccontare agli altri.
A me resta il cuore, che forse è l’unica cosa che abbiamo in comune, per cercare di capire questo strano posto dove sono finita ad abitare, un posto che è terra di tutti e di nessuno, un posto dove forse il futuro è solo di chi se lo piglia, e che è Roma senza esserlo.

[Per Sara]

Pubblicato da laPitta

La Pitta è una dritta con i capelli a spaghetto lunghi come un vialetto. Potrebbe raccontare a tutti che da più di dieci anni lavora per la pubblicità, potrebbe dire che ha visto l’uomo atterrare sulla luna e che ha passato più di cinquemila minuti a guardare ogni genere di film con grande passione. Già, potrebbe. Ma la Pitta è troppo modesta. Alla Pitta piace: arrivare sempre alla fine di un libro, leggere i titoli di coda fino a quando non si accendono le luci in sala, bere tè appena sveglia, segnarsi i titoli delle canzoni da sentire almeno una volta nella vita, ascoltare i discorsi che le persone fanno quando sono al ristorante e “Il favoloso mondo di Amélie”, ma questo l’avevate già capito.